Coltiveremo i vestiti in casa in un futuro non molto lontano? Secondo il progetto Biocouture di Suzanne Lee, ricercatore senior presso il Central Saint Martins College of Art and Design di Londra sarà possibile.
La designer, stanca dello sfruttamento delle risorse vegetali/naturali e l'abuso di prodotti derivati dal petrolio e da sostanze chimiche per ottenere fibre sintetiche e grezze, ha deciso di studiare l'attività di microrganismi che vivono all'interno di una soluzione zuccherina al the verde e ha scoperto che alcune specie di batteri producono una cellulosa che filano da soli, formando un denso strato che può essere raccolto e poi modellato oppure può essere essiccato in forma piatta e poi tagliato e cucito come un vero e proprio tessuto.
Questo tessuto biodegradabile si stampa e si tinge molto facilmente, ma ha ancora un difetto non trascurabile: è super assorbente e sotto la pioggia rischia di gonfiarsi come una spugna, ma si sta già lavorando ad un prototipo idrorepellente.
Suzanne Lee. Biocouture: camicetta in biopelle |
Suzanne Lee. Biocouture: bomber in biopelle. |
Il progetto Algaerium di Marin Sawa invece non ha nessun problema con l'umidità e si basa sui processi biologici che le micro-alghe attivano in reazione con la luce; la designer ha poi pensato di inserire queste micro-alghe in microstrutture modulari trasparenti, che cambiano colore a seconda della luce che c'è nell'ambiente circostante. A breve è atteso il lancio di una sua collezione di collane fotosintetiche.
Marin Sawa, Algaerium: coltivazione di micro-alghe all'interno della struttura modulare |
La biotecnologia invece potrebbe sconvolgere dal punto di vista etico il mondo dell'alta moda, se riuscirà a trovare un modo per produrre avorio in modo etico o pellicce di specie ibride non ancora nate. Amy Congdon, con il suo progetto Biological Atelier, ha provato a dare una risposta a questi interrogativi lavorando a SymbioticA, un laboratorio artistico del dipartimento di bioscenza delle della University of Western Australia di Perth. Qui la Congdon ha studiato in modo particolare la tecnica del ricamo digitale, che utilizza cellule vive per riprodurre strutture tridimensionali complesse, anche attraverso la stampa a getto “di cellule staminali” (anziché d'inchiostro!!) già usata con successo in medicina per riparare i tessuti epidermici danneggiati.
Amy Congdon. Biological Atelier: Mixed Finish Trim. Prototipo di ricamo digitale |
Amy Congdon. Biological Atelier: Equivory Bracelets (sinistra) e Nacrelass Brooch (destra). Prototipo di ricamo digitale |
Design Fiction invece è l'ironica provocazione di Natsai Audrey Chieza (originaria dello Zimbawe, ma londinese d'adozione): una collezione di pezzi unici che immagina le potenziali applicazioni della biotecnologia in un futuristico e ipotetica laboratorio del 2075; il progetto Voluntary Mutations presta particolare attenzione alle possibilità estetiche che una biologia staminale "fai-da-te" potrebbe generare, mentre Parasitic Prosthesis suggerisce che il corpo umano possa in futuro espandersi geneticamente grazie ad organismi e parassiti.
Natsai Audrey Chieza: Design Fictions, Voluntary Mutations: pelli coltivate in casa |
Natsai Audrey Chieza. Design Fictions, Parasitic Prosthesis: Bacterium Lobe Pendant |
E a voi queste ricerche cosa vi fanno pensare? Sicuramente sarebbero dei passi da gigante sul fronte dello sfruttamento delle risorse naturali e dell'uso di sostanze chimiche per la creazione di tessuti; ma non è un po' strano pensare di essere vestiti con della cellulosa prodotta da microrganismi?? :)
c.
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